Tra una prova e l’altra del Brevetto dell’Appennino, il Pedale Novatese ha inserito la mitica gran fondo Nove colli di Cesenatico.
Oddio, diciamo le cose come stanno. Molti di noi, me compreso, hanno scelto il Brevetto perché aveva un calendario adatto alle esigenze di chi si era iscritto prima alla regina delle gran fondo.
Così eccoci arrivare, alla spicciolata, in riva all’Adriatico sabato mattina.
Il tempo di mangiar qualcosa e nel pomeriggio ci inoltriamo nella fiera per curiosare, fra i vari stand, le primizie del settore e cominciare ad assaggiare il piacevole caos che troveremo l’indomani.
Già, l’indomani…
Eccolo, l’indomani, con la sveglia puntata alle 4.
Il tempo di vestirsi e giù, a far colazione, in un’atmosfera assonnata, certo, ma allegra; ognuno con il suo proposito, chi sul percorso medio e chi sul lungo, con le proprie speranze e con il proprio freddo.
Eh si, maledizione, fa parecchio freddo a Cesenatico alle 5 del mattino e sembra che persino il sole voglia stare sotto le coperte anche perché dove non arriva il freddo ci pensa il vento a far si che la temperatura percepita sia ben più bassa di quella che diversi termometri dichiarano.
Tremanti, forse anche per l’emozione per quel che mi riguarda, ci dirigiamo alle rispettive griglie di partenza; si perché per diverse ragioni (merito, data dell’iscrizione per esempio) non siamo tutti insieme. Ecco la mia griglia (non ridete, per favore, è quella rosa) dove mi posiziono con Mario e Silvio.
“Quanto pensi di metterci?”
Chiedo a Mario, perché Silvio non ha ancora deciso quale percorso farà (ma poi concluderà il lungo perché, parole sue, altrimenti lo avremmo preso in giro).
“Quel che arriva, arriva.”
Mi risponde.
E tu?
Già, io.
Io, che mi presento qui per la prima volta, ho deciso di cimentarmi sui 205 chilometri.
“Perché se si chiama Nove colli si devono fare nove colli e non quattro.”
Dicevo, spavaldo, quest’inverno ma ora mi rendo conto che avendo poco più di duemila chilometri di allenamento e distanze che non si avvicinano a questa non sono molto convinto; anche l’idea di impiegarci nove ore mi sembra una guasconata nonostante mio cugino Pierluigi mi avesse detto:
“Va là, Cas. Uno come te vuoi che non faccia almeno i 23 di media?”
E allora via a far calcoli dove risulterebbe che per raggiungere tale obbiettivo bisognerebbe stare tra le otto ore e mezza e le otto e tre quarti. Bah, esagerato.
Mentre rifletto su ciò, ecco lo sparo che alle 6 in punto da inizio alla gara.
No, fermi, un momento. Lo sparo da il via ai primi perché io con il mio bel numero 7487 potrò reputarmi in gara ben mezz’ora dopo.
Vorrei partire ad una andatura moderata, 30/35 chilometri orari, ma non c’è verso.
“Sono il primo traditore di me stesso.”
Mi dico mentre a 40 chilometri orari ed oltre percorro lo spazio di pianura che collega il mare alle colline.
“Ma cosa ci fa tutta questa gente a bordo strada a quest’ora?”
E’ talmente un evento questa manifestazione che qui è vissuta alla pari di un campionato del mondo. Vi do, a spanne, alcuni dati per rendere ben chiaro ciò che mi appresto a raccontare.
Si tratta della 44esima edizione con ben 12000 iscritti e molti dall’estero (con i miei occhi ho visto norvegesi, svedesi, gli immancabili tedeschi e austriaci, inglesi e persino due colleghi di Abu Dhabi ed un brasiliano); un migliaio i volontari dislocati come servizio d’ordine, cuochi al pasta party e nei nove ristori lungo il percorso.
Come se ciò non bastasse, vi narrerò anche del ristoro abusivo con damigiane di Sangiovese e salamelle (sul Ciola), ragazzi con strumenti ad accoglierci a fine salita (su a Monte Pugliano) ed i ristori per i propri ospiti che alcuni alberghi hanno allestito in diversi punti.
Di più non posso dire se non, agli amanti del ciclismo pedalato, venite a vedere con i vostri occhi. Con i primi chilometri anche le prime cadute e la domanda esce spontanea:
“Quando impareremo l’uso della parola criterio?”
Dopo poco meno di trenta chilometri iniziano le danze. E’ il Polenta a far da apripista con i suoi 8 chilometri che ci porteranno dall’abitato di Bertinoro al borgo con l’omonimo castello.
Come già ho potuto notare in altre gran fondo, le salite dell’Appennino sono irregolari nella loro ascesa ed anche qui non si sfugge alla regola così con l’aumentare della pendenza si allunga il divario fra me, Mario e Silvio con quest’ultimo che, grazie al suo fisico minuto, scompare nel mucchio che anziché diradarsi si compatta perché vengono raggiunti i più deboli dei gruppi precedenti e cominciano ad arrivare i più forti dei gruppi partiti dopo il mio. Così, in una babele di dialetti di ogni parte d’Italia, si arriva in cima dove Pantani dentro la mia testa sembra dirmi:
“Sei salito bene, patacca, ma reggerai agli altri 8?”
“Mi sto alimentando bene, poco e spesso, così da non buttare calorie per il freddo ed ho lo smanicato che tengo aperto quando salgo e che prontamente chiudo in discesa.”
Capisco, parlo a coloro che hanno una discreta esperienza, che se è vero che Una rondine non fa primavera, il Polenta non basta per dirti come sarà la tua Nove colli; ma permettetemi di pensare che fa morale essere arrivato in cima senza fiatone e gambe dure.
Dopo poche centinaia di metri, però, un problema mi assilla: idraulico.
Premetto che, evidentemente per l’aria frizzantina, i primi 50 chilometri saranno punteggiati da ciclisti intenti a svolgere questa nuova disciplina che accomuna sport e giardinaggio; ovvero ciclismo e irrigazione di piante e siepi ai margini della strada.
Non so decidere a fermarmi speranzoso che sia uno stimolo passeggero; di certo non mi fermo a Meldola. Però dopo il paese la strada si addentra nel bosco e, data l’insistenza dell’inquilino del piano di sotto, posso programmare la sosta che avviene ai piedi della seconda salita.
“Così chi mi supera non andrà lontano.”
Penso; e così deve aver pensato Silvio che si è fermato poco prima per lo stesso motivo.
Non occorre molto, a Silvio, per raggiungermi e mollarmi lì prima che la strada si restringa rendendo difficili i sorpassi a colleghi più lenti; spesso sono costretto ad appoggiare la mano sul fianco o sulla spalla di qualcuno per avvisarlo della mia presenza ed assisto al litigio verbale fra chi pretende strada perché Deve fare il tempo e chi, come me, vuole fare il cicloturista.
Eccoci in cima a Pieve di Rivoschio.
“Non dire niente, Marco Pantani, sto andando ancora bene e avrei voluto vedere te come te la saresti cavata in questo groviglio.”
E sono due.
Come due siamo noi perché da qui in poi Mario sarà una presenza importante per tutta la gara; faremo insieme quasi 150 chilometri scambiandoci più e più volte i ruoli di sostenitore e sostenuto staccandoci, sia in salita che in discesa, ma aspettandoci ogni volta.
La picchiata che da Pieve di Rivoschio porta a Linaro è breve ma già capisco che io e la mia Chiara siamo in giornata di grazia e il pensiero rivolto a Eleonora, che mi aspetta a Cesenatico, aiuta nella concentrazione. A riguardo apro una piccola parentesi.
Per quasi tutti gli 8 chilometri di questa salita avevo in mente una canzone intitolata Thank you; è, a mio avviso, la più bella canzone d’amore dei Led Zeppelin: traetene voi le conclusioni.
Giunti a Linaro non si ha tempo per fare programmi perché il Ciola incombe.
Lungo questi 6 chilometri si assiste allo sparpagliarsi dei vari gruppi, e dove non arriva la pendenza arrivano i profumi delle salamelle e del Sangiovese del ristoro abusivo che invitano alcuni a mettere piede a terra e godersi queste delizie. Mario ed io saliamo bene; io, onestamente, impreco per aver saltato il ristoro di Pieve di Rivoschio che avevo programmato e così mi ritrovo a corto di liquidi.
“Non fermiamoci sul Barbotto,” mi consiglia Mario, “perché ci sarà un bel casino. Sostiamo al ristoro dopo il bivio a fine discesa.”
Salgo con margine al punto che, nell’osservare il paesaggio circostante, mi accorgo che da quassù si vede persino il mare. “Bella vista per essere appena sopra i 500 metri.”
Penso e mi preparo per la lunga discesa che conduce a Mercato Saraceno; sapere che Mario si fida ciecamente di me mi dà la giusta tranquillità per azzardare quanto basta e non dovermi voltare per controllare la sua posizione; dal canto mio continuo a stupirmi per come sia lucido e sicuro su strada a me sconosciute e non certo lisce come al Giro d’Italia.
Giunti a Mercato Saraceno, per motivi che nemmeno scoprirò, vengo bloccato e con me altri trenta colleghi.
“Come facciamo il tempo?”
Inveisce qualcuno, ma prima che la situazione prenda una brutta piega ci viene dato il lasciapassare che coincide con l’inizio della salita simbolo di tutta la manifestazione: il Barbotto.
La salita è di media lunghezza, poco meno di 6 chilometri, ma la pendenza massima del 16% la rende alquanto ostica, inoltre è posta tra l’ottantesimo chilometro ed il novantesimo quindi con forze che, se gestite male, cominceranno a mancare (in effetti qualcuno salirà a piedi); per i mediofondisti sarà la fine delle sofferenze perché, una volta in cima, avranno da percorrere 40 chilometri solo di discesa e pianura mentre io… Io non potrò dirmi nemmeno a metà dell’opera ma non ci penso e salgo con Mario che va avanti poi lo raggiungo, poi va avanti ed io, di nuovo, lo raggiungo. Mi esalto grazie alle due ali di folla che applaudono; tra me e me penso che l’impresa stia diventando fattibile, do un’occhiata al computerino per verificare la cadenza di pedalata (il cardio anche stavolta mi ha abbandonato) perché ho sentito dal C.T. della nazionale, Davide Cassani, che bisogna essere in grado di tenersi sulle 70 pedalate al minuto.
“Tu, Marco, che cadenza avevi? E con quale rapporto?”
“Patacca, io qui con questa gente mi sarei esaltato; mani sotto e me li sarei mangiati tutti.”
Ecco il gommone che indica la fine della cronoscalata.
C’è la folla delle grandi occasioni. Persino lo speaker con la musica ad incitarci. Che roba.
E che caldo fa ora! Faccio due conti così a caso perché non ho riferimenti e penso di essere in sella da tre ore, tre e mezza al massimo, perciò devono essere circa le 10. Chiudo lo smanicato che ancora indosso e mi getto a capofitto con Mario che si diverte da pazzi; sfioriamo i 70 chilometri orari e in breve siamo alle porte di Sogliano al Rubicone dove c’è il bivio dei due percorsi.
Qui, purtroppo, c’è una caduta seria perché troviamo un’ambulanza messa di traverso per farci rallentare; la aggiriamo e, come detto dal mio compagno in precedenza, ci fermiamo al ristoro dove ci stiamo parecchio (per quello che è il mio standard) ma è necessario per riprendere liquidi inoltre si unisce a noi Claudio che, partito una griglia dopo di noi, sta facendo una bella prestazione, peccato che non è in gara.
“Andiamo?”
“Andiamo.”
Si riparte alla volta della quinta difficoltà: Monte Tiffi.
Prima di arrivarci, però, assistiamo al passaggio dei primi in un tratto che fa sia da andata che da ritorno e facciamo le nostre considerazioni.
“Hai visto come andavano a sparo?”
Mi dice Mario.
“Beh, lì la discesa è dritta ed erano in parecchi. Piuttosto pensavo che hanno 4 colli di vantaggio.”
Tradotto in cifre almeno 50 chilometri!
Pensiamo a noi altrimenti ci viene la depressione. Monte Tiffi non è difficile, sono pochi chilometri, ma ci pensa l’asfalto gettato da poco e che il sole rende molle a frenare le nostre ruote; sono 3-4 tratti che, ahimè, spezzano il ritmo.
Qui perdo la scia di Claudio e Mario ma mentre il secondo mi aspetterà al ristoro, il primo sembra andato definitivamente. Non si riesce a riprendere fiato che già la sesta incombe.
Questa volta il culmine è previsto a Perticara dopo altri 8 chilometri tutti sotto il sole di mezzogiorno.
“Ma non puoi andare un po’ più forte, patacca?”
“No, caro Marco, so che i miei 11/13 chilometri orari sono inconcepibili ma guardiamoci attorno, non è che c’è chi sta meglio.”
E poi, aggiungo, non ho ancora sentito i crampi e questo mi convince che sto usando una condotta adatta a me.
Da Perticara a Novafeltria la discesa è un toboga che io e Chiara affrontiamo con decisione, sembra quasi che io non veda l’ora di iniziare un’altra salita.
Detto fatto.
Si attraversa il fiume Marecchia e subito pendenze velenose ci accolgono per quella che è la salita più lunga della gara. Infatti ora dobbiamo stare con il naso all’insù per 9 chilometri e raggiungere Monte Pugliano che con i suoi quasi 800 metri di quota è la Cima Coppi.
Senza nulla togliere alle altre otto, questa la giudico la salita più bella per il paesaggio che offre; siamo nel Montefeltro e qui a dominare c’è la Rocca di San Leo che sembra osservarmi.
“Chissà cosa direbbe Cagliostro alla nostra vista.”
Ma mentre dico così osservo bene l’orizzonte e… E già.
Si vede anche San Marino. Wow che spettacolo!
Giunti in cima, Mario vorrebbe prendere al ristoro un piatto di tortellini al ragù.
“Ce ne facciamo uno in due?”
“No, Mario. Io ho bisogno di bagnarmi e basta.”
“Bravo, patacca, non appesantirti.”
Mario acconsente di buon grado così ripartiamo nuovamente in tre perché Claudio si è fatto riprendere. Mi guardo ancora intorno mentre scendo e non posso esimermi dal rallentare un poco e godermi ancora San Leo ora proprio sopra la mia testa. “Chissà quante volte l’avrai vista tu, eh Pirata?”
“Pedala che mica è finita.”
E’ vero; una volta terminata la discesa mancheranno poco più di 50 chilometri al traguardo ma come si fa a non portarsi nella mente un’immagine simile?
Poi, ma lo scoprirò dopo, il Passo delle Siepi con i suoi 4 chilometri regolari è la più facile delle 9.
“Ottava salita.”
“Io preferisco chiamarla penultima, suona meglio.”
Ed ottengo l’approvazione di altri colleghi con i quali percorro l’erta perché perdo terreno dai miei due compagni e ritengo che sia giusto così perché loro sono più allenati ed è meglio che vadano. Ma no. Li riprendo e torno ad essere la locomotiva in discesa alla fine della quale c’è la svolta.
Approfittando della scia di una collega che viaggia dietro il motorino di un suo dirigente (o sarà stato il suo compagno?) copriamo la strada in falsopiano che ci separa dall’ultima salita ad una velocità costante sui 38/40 chilometri orari.
Altri si accodano, qualcuno ci smoccola dietro.
“Mario io mollo altrimenti vado fuori giri.”
Urlo mentre sono in terza posizione che è, tecnicamente, la più scomoda perché non si sfrutta appieno la scia del mezzo motorizzato.
Già, mollo. E poi cosa faccio?
Mi riaccodo in ultima posizione maledicendomi per essermi sottoposto a questo sforzo ulteriore ma contento perché chi mi precede ora è un armadio che sfiora il metro e novanta ed anche la larghezza è considerevole così ora si, che sono riparato. Pochi chilometri ancora ed ecco l’ultima fatica ufficiale: Gorolo.
E’ corta, solo 4 chilometri, ma sin da subito la pendenza supera il 10% e poi negli ultimi 500 metri c’è il drittone al 17%; aggiungiamo che arriva dopo 170 chilometri…
Passato il tappetino che da il via alla cronoscalata mi alzo di sella e delle piccole punture si sentono sulle cosce.
“No, dai, non adesso.”
La paura di avere i crampi proprio ora e di dover scendere di sella si presenta ma sono lucido.
“Ho i crampi dappertutto.”
E’, invece, l’affermazione di Mario che riconosce che aver fatto quella sparata non è stato proprio un bene. Ci viene incontro la salita spianandosi dopo un paio di chilometri e dove cerco di dare l’esempio togliendo prima il piede sinistro e poi il destro e fare pochi secondi di stretching stando in bici.
“Bravo, patacca, e ora facciamo a chi arriva primo?”
“Si, Pirata, si! Ora ti faccio vedere cosa ti combina questa vecchia carretta!”
E accelero… Accelero.
C’è una famigliola che ci applaude ed io do il cinque prima al maschietto, poi alla sorellina ed infine alla mamma e sono in cima dove, appena passato il controllo appoggio la bicicletta e mi chino a baciare l’asfalto.
“E’ finita, grande Marco.”
Penso, e vorrei chiamare Eleonora per ragguagliarla mentre anche un dolorante Mario ed un affaticato Claudio arrivano.
“Dai ragazzi, guido io.”
Li esorto preso da un’incontenibile euforia. Così passato il falsopiano, che miete vittime per via di strappetti sconosciuti, conduco il trenino giù fino a Savignano al Rubicone dove chi, come me, ha più energia si organizza per portare tutti al traguardo.
Otto chilometri alla fine. E’ il mio turno in testa e, pian piano, porto la velocità da 34 a 37 chilometri orari, ma che succede? Gli altri non mi seguono, e Claudio e Mario? E’ ovvio che stanno faticando ma, diamine, dietro sono una ventina, arriveranno. Così proseguo con il vento laterale ma non calo l’andatura; svolta a sinistra, ora il vento è in schiena e sfioro i 40 rendendomi conto che potrei dare di più. Passo altri colleghi, chi affaticato chi appagato, provo ad esortarli a prendermi la scia ma non riescono e allora continuo in posizione da cronoman.
Ecco il rettilineo!
Ancora con gli avambracci sul manubrio percorro le ultime centinaia di metri.
“Dai Stefano!”
Possibile? Possibilissimo.
Eleonora, con mia grande sorpresa, è venuta al traguardo e mi ha visto arrivare. Passo il tappetino del cronometraggio baciando la Fede con più gioia sapendola qui vicino. Ecco Mario che si complimenta con me per il finale ma sono io, Mario, che devo ringraziarti per quanto fatto moralmente tutte quelle ore!
Ritorno. La vedo e le metto la medaglia al collo come mia usanza. In albergo gli ultimi complimenti e le considerazioni chiudono questa esperienza.
Arrivederci al prossimo anno allora?
Non lo so. Ho paura.
Si, care amiche e cari amici, ho paura. Paura di rovinare la poesia e la gioia che questa esperienza mi ha dato.
Ho vissuto praticamente una giornata in bicicletta ma non ho fatto una gara, sono stato testimone di qualcosa che va più in là dell’avvenimento sportivo.
Ho sentito l’allegria ed il calore di una sagra paesana dove questo paese è lungo più di 200 chilometri e, come in ogni fiera che si rispetti, cambiano in continuazione persone e le situazioni.
Cambiano ma hanno un denominatore comune che vale per chi pedala come per chi è a bordo strada: FARE FESTA.