E così eccomi qua, nella capitale d’Italia, a decretare quella che, a meno di nostalgici ripensamenti, sarà la mia ultima volta con un numero attaccato alla schiena. So che a qualcuno di voi, amiche e amici, dispiacerà; credetemi dispiace anche a me e, siccome non ritengo corretto tediarvi con i perché ed i per come, vedo di non por tempo in mezzo e vado con il racconto.
La domenica inizia alle 4.50 quando, cioè, decido di alzarmi e zittire la sveglia (tanto avrebbe suonato dieci minuti dopo) perché non essendo alloggiati nei paraggi del villaggio d’accoglienza la partenza dall’albergo è fissata alle 6.15 (il via della gara, invece, è stato stabilito alle 7.15). “Sapessi amore mio come mi piace partire quando Milano dorme ancora…”
Così cantava il noto cantautore Fabio Concato nella sua Domenica bestiale; signor Concato le consiglio di vedersi Roma alle 6.30: la Basilica di San Pietro, Castel Sant’Angelo, Palazzo di giustizia e via via gli altri monumenti illuminati, fino ad arrivare all’Altare della Patria e i Fori Imperiali da dove partirà la manifestazione.
Siamo in 5000 (fonti dell’organizzazione) a sfilare per le vie della città, prima, e poi verso i Colli Albani, ma prima nessuno vuole perdere l’occasione di una foto con il Colosseo alle spalle. È uno show di flash mentre la voce degli speakers cerca di caricarci a molla per il via; sento persino l’intervista al mio idolo di gioventù, Francesco Moser, anche lui ai nastri di partenza.
Per ingannar l’attesa mi diverto a leggere i cognomi dei colleghi attorno a me perché l’organizzazione ha pensato bene di aggiungerli ai numeri sul pettorale e, lo confesso, su qualcuno un po’ di ironia l’ho fatta. Ma ecco il via.
Ci dirigiamo verso Palazzo Venezia e da lì, per cinque chilometri, sfiliamo per la città semi addormentata. Bello!
Oh, si, suggestivo se non fosse per i lunghi tratti con i famosi sanpietrini a far tremare gli arti e non solo; comunque mi districo bene e penso di avere una predisposizione per questo tipo di esercizio e mentre mi faccio le mie riflessioni mi accorgo che nessuno dei miei compagni mi segue; verrò raggiunto da Luigi e Mario mentre si esce dalla città.
In tre proseguiamo cercando di capire dove sono gli altri.
Ma se continuiamo con questa andatura ne avremo di tempo per aspettarli al culmine della prima salita, penso, perciò mi lascio sfilare e aspetto gli altri; ecco Umberto e Mauro.
“Raggiungiamo gli altri.”
Mi incitano ed io, sciocco, accetto l’invito e mi lancio sul filo dei 45 chilometri orari alla caccia dei due che ho appena lasciato mentre una domanda si fa largo fra i miei pensieri: ma se sono tre settimane che non pedalo, come penso di arrivare in fondo in questo modo?
Saluto il quartetto dei più forti per aspettare qualcun altro (certo che come scusa è buona per giustificare l’obbligo di un’andatura più moderata) che si palesa nello stile di Maurizio. Il tempo di fargli il rapporto della situazione ed eccoci ad Albano; son passati più di trenta chilometri ed è il momento della prima salita: la panoramica sul lago.
Salgo tranquillo lungo i poco più di due chilometri, senza affanno, stupendomi del fatto che il mio compagno, più allenato, non sta al mio passo ma lo cerco e fianco a fianco scolliniamo e troviamo gli altri quattro che ci aspettano.
Purtroppo il proposito di proseguire in sei è deluso da una foratura che appieda Umberto; qui Maurizio ed io che, spero non me ne voglia, siamo gli anelli deboli andiamo avanti per raggiungere Luigi che non si è accorto dell’imprevisto.
“Tanto ci riprendono.” È il suo commento quando lo avvisiamo di quanto successo, vi dico subito che ciò non succederà.
Il clima, nel frattempo, volge al peggio, fa freddo, è molto umido e siamo immersi in una leggera nebbia che mi fa tornare con la mente a maggio, alla Nove colli (ricordate?).
Trovo il modo di scambiare due parole con l’ex professionista Alessandro Proni, in gara a far da accompagnatore ad alcuni amici, ma la chiacchierata dura poco perché incombe la seconda asperità di giornata: il Murus. Si tratta, e qui vado sul tecnico (perché, come dicono da queste parti, quanno ce vò, ce vò) di una rampa di 1600 metri con pendenza media del 10% e massima del 16%, reso l’idea? Bene.
Anche qui mi sorprende la facilità (?) di pedalata con la quale scollino, in cima aspetta pochi secondi l’arrivo degli altri due e zigzagando fra i concorrenti fermi al ristoro di Rocca di Papa ci gettiamo in discesa formando via via un bel gruppo.
La strada verso Rocca Priora corre veloce sotto le ruote, le gambe rispondono a dovere e Chiara sembra sempre sul punto di spronarmi ad andare più veloce.
Mi piacerebbe, cavallina mia, ma devo fare i conti con l’incognita del chilometraggio, le dico poco prima di cedere alla tentazione di una discesa fatta a modo mio dove perdo Maurizio e Luigi (oggi particolarmente timoroso, mi confesserà poi) e mi trovo ad iniziare la terza salita, che porta appunto a Rocca Priora, da solo; lungo i sei chilometri mi volto spesso per cercare gli altri ma nulla, decido pertanto di mettere piede a terra una volta in cima e attenderli.
Una volta ricomposto il trio riprendiamo il viaggio; ora solo una salita ci separa dalla meta: il Rostrum. È posto a Montecompatri, a quaranta chilometri dal traguardo, e sono solo 700 metri con pendenza massima del 18%, ma ciò che lo caratterizza sono gli ultimi 200 metri in pavé.
Nonostante una prima avvisaglia di crampi salgo ancora bene esaltandomi, nel limite del possibile, proprio nell’ultimo tratto; mi rendo conto che mi sto proprio divertendo.
Breve sosta al ristoro e andiamo con le mie forze che sembrano moltiplicarsi lungo la strada in lieve, ma costante, discesa (per molti di voi dirò un’ovvietà ma credetemi, care amiche e cari amici, quando il fisico risponde la gran fondo diventa gioiosa), forze che, noto, non sembrano assistere i miei compagni; per fortuna siamo alle porte di Roma e i cartelli indicatori quanto manca al traguardo passano rapidi.
A una quindicina di chilometri dalla conclusione, nei pressi dell’Aeroporto di Ciampino, controllo le tasche nel timore che fra manicotti, mantellina, guanti, eccetera non abbia perso qualcosa. Tocco gli occhiali, che non ho mai messo a causa della visibilità scarsa, ed un magone sale; la mente va a Lorenzo, l’amico che quegli occhiali mi ha venduto e che il destino ha voluto allontanarlo dall’affetto dei suoi genitori quattro anni orsono. Passo alcuni chilometri impegnato a scacciare le lacrime promettendo che dedicherò a lui quest’ultima impresa.
Ecco Porta San Sebastiano e l’ultimo chilometro. È tutto in pavé e molti compagni d’avventura, fra i quali Maurizio, si lanciano; purtroppo per loro il tratto è in lieve ascesa ed io inizio la mia rimonta, raggiungo Maurizio (“Non vado più.” Mi dice) ai meno 200 e lo salto come faccio con gran parte degli altri.
Taglio il traguardo e, dopo aver baciato la Fede e alzato l’indice al cielo per l’amico Lorenzo, mi fermo un centinaio di metri dopo. Mi volto, osservo il palco, i colleghi che si scambiano le prime impressioni e quelli che abbracciano i familiari; ho sentito persino il mio nome pronunciato dallo speaker!
Tutto questo ho deciso che non lo vedrò più, che non sarò più parte di questo mondo… Ma sarà davvero così?
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